Accompagnare qualcuno in un percorso evolutivo e di crescita personale, che si tratti di un passaggio di vita, di una trasformazione, della presa di coscienza del proprio valore o di un momento di transizione colmo di confusione e di paure, rimane un compito tanto bello quanto delicato e prezioso, in cui il non fare è l'azione paradossalmente più importante. Chi accompagna infatti deve riuscire a mettere da parte il proprio ego e spesso il proprio personale sentire, ponendosi al servizio di un sapere più grande: deve riuscire a farsi da tramite, ovvero a farsi ponte tra quel campo di informazioni detto anche coscienza o inconscio collettivo e la persona che sta seguendo.
Sicuramente a monte si tratta sempre di comprendere se chi si ha di fronte desidera o meno uscire dall'apparente pantano in cui si trova, poiché non è possibile aiutare chi non vuole essere aiutato e non sarebbe neppure etico o lecito farlo. Certo questo aspetto si complica quando si tratta di persone che fanno parte della propria cerchia di affetti, poiché ci si sente spinti da una sorta di missione e si vorrebbe, soprattutto quando si è trovato beneficio a propria volta in una disciplina o in un certo tipo di approccio, che chiunque ne potesse giovare. Ma non tutto va necessariamente bene per tutti ed è giusto che ciascuno possa sentire o meno un richiamo e possa decidere o meno se rispondere a quel richiamo; per questo spesso sconsiglio di regalare percorsi a terzi, là dove se ne sono sperimentati giovamenti in prima persona.
Dunque chi accompagna deve riuscire ad essere super partes, ad empatizzare, ma a non farsi coinvolgere, deve essere in grado di fare luce, ma non deve indicare la soluzione, deve sostenere le scelte personali dell'altro senza imporre il proprio pensiero; essere disponibile, ma non invadente, obiettivo, ma non giudicante. E, cosa ancor più impegnativa, deve essere in grado di fare tutto questo senza che ci sia un fraintendimento rispetto ai ruoli, in quanto la professionalità deve rimanere tale: mostrare interesse, preoccuparsi dell'altro, non varca mai il confine della relazione diventando amicizia, perché un amico non riuscirebbe a mantenere il distacco necessario per vedere le cose con la meritata distanza.
Ma quindi chi propone un percorso olistico di accompagnamento, esattamente cosa fa? Accoglie, ascolta, osserva, fa domande mirate, è presente in maniera attenta e ha davvero a cuore chi gli sta davanti, in quanto non lo vede come altro da sé, bensì come parte di un tutto al quale egli stesso, in primis, appartiene. Chi accompagna fa delle proprie esperienze un bagaglio di strumenti utili a supportare altre persone che attraversano vicissitudini simili, ma sa che ogni storia è a sé. Chi accompagna non vuole creare dipendenza, bensì rendere l'altro, il prima possibile indipendente ed in grado di spiccare il volo. Chi accompagna usa parole di incoraggiamento e fa capire che a volte l'impossibile può diventare possibile, soprattutto se si abbattono le barriere di auto sabotaggio ed i limiti che ci si impongono.
E, più di ogni altra cosa, chi accompagna non desidera prendersi il merito del successo altrui, perché sa bene di non aver fatto nulla se non aver dato uno specchio nel quale l'altro potesse riflettersi. E così quando l'altro lo ringrazia per i risultati raggiunti, chi accompagna ha il dovere morale di ricordare al suo interlocutore che in realtà deve ringraziare se stesso/a.
Infine chi accompagna non ruba mai la scena al protagonista: è l'ostetrica che assiste al parto, è l'insegnante di teatro che rimane dietro alle quinte durante allo spettacolo, è la Madre che guarda il suo bambino lasciarle la mano ed andare nel mondo con entusiasmo; la gratitudine e la gioia per aver potuto essere testimone di un processo trasformativo tanto grande ed emozionante, sono incommensurabili.
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